Intervista a Camille Keaton

L'indimenticabile protagonista di Non violentate Jennifer
Featured Image

«Sono arrivata in Italia visitando l’Inghilterra e la Francia. Volevo vivere in Italia anche perché avevo uno zio italiano». Così Camille Keaton (Pine Bluff, 20 luglio 1947), indimenticata protagonista, tra le altre cose, di Cosa avete fatto a Solange? (Massimo Dallamano, 1972) e Non violentate Jennifer (I Spit On Your Grave, Meir Zarchi, 1978). «Sono originaria dell’Arkansas – spiega l’attrice – vengo dalla stessa zona dove è nato e cresciuto Bill Clinton».

Parliamo della tua infanzia in Arkansas…

In Arkansas vivevo in paesino di duemila animem dove non c’era praticamente nulla da fare. Sembravo uno dei personaggi del film American Graffiti. Non c’erano piscine per cui si andava a nuotare nel lago. Insomma, c’era veramente poco da fare.

Quando hai scelto di andare via? E perché proprio l’Europa? Non è scontato che un americano lasci il suo Paese per venire nel Vecchio continente…

A 13 anni sono andata in Georgia con i miei genitori, e qualche anno dopo sono partita definitivamente. Avevo questo mio zio che viveva in Italia. Volevo andare a vivere in un Paese dove non facesse troppo freddo. E poi volevo imparare una lingua straniera.

Prima di arrivare in Italia hai detto di essere andata in Inghilterra e in Francia…

Sì, ma solo come turista.

Quando sei arrivata a Roma, già sapevi di voler fare l’attrice?

Non proprio. Non è che avessi molto da fare o da pensare. Poi ho incontrato qualcuno che mi ha proposto di fare i Caroselli. Non sapevo neanche cosa fossero, così mi hanno spiegato che erano un po’ come dei commercials, solo strutturati come mini-film. Ho pensato che fosse una buona idea, mi sono fatta un portfolio, ho preso un agente e così ho cominciato.

Chi era il tuo agente?

Non mi ricordo il nome, ma era un americano che viveva da diciassette anni in Italia e non parlava una parola di italiano. Poi ne ho avuto un altro. Infine, quello di cui mi ricordo di più, l’ultimo agente “italiano” che ho avuto, è stata Yvette Louis

Quindi hai fatto i caroselli. Ma ti ricordi anche per quali prodotti?

Certo, per i gelati Algida, in Sardegna, prima dell’inizio della stagione estiva. Poi ne ho fatto uno per i Baci Perugina, uno per una marca di reggiseno modellante e due per E. F. Hutton, che era un fornitore di borse che oggi non esiste più.

Ti piaceva fare i caroselli?

Sì, sì. Nel frattempo facevo anche altri lavori, come la comparsa sui set. Pensa che spesso mi mandano foto mie in film che non ricordo assolutamente di aver fatto. Ci sono in queste foto, sullo sfondo. Uno di questi film, per esempio, era con Ringo Starr: feci la comparsa ma non ricordo neanche il titolo… (Blindman di Ferdinando Baldi, 1971, ndr).

Quando ti hanno notata per la prima volta chiamandoti per una parte più rilevante?

Beh, prima ho cominciato facendo la controfigura ad alcune attrici. Per esempio a Ewa Aulin, in una scena di un film dove lei nuotava.

Ah, e ti ricordi altre attrici per cui hai fatto la controfigura?

No, solo la Aulin.

E quando poi sei diventata tu, la protagonista?

Mandai delle mie foto a Franco Zeffirelli, ma non ricevetti nessuna risposta. Mesi dopo mi contattò Massimo Dallamano chiedendomi se potevo andare a trovarlo. Non parlavo molto bene italiano e lui non parlava molto bene l’inglese. Comunque ci siamo incontrati e lui mi ha offerto il ruolo di Solange in Cosa avete fatto a Solange? Provammo insieme la parte e mi ricordo che la trovai molto difficile perché non avevo mai preso lezioni di recitazione, solo di dizione. Quello fu il mio primo vero ruolo di attrice.

Quindi ti spaventava l’idea di dover affrontare un ruolo così importante?

Era più che altro una sfida perché avrei dovuto interpretare la parte di una ragazza con una strana forma di ritardo mentale. Per cui non sapevo come fare. E Massimo, molto professionale, mi disse «Non ti devi preoccupare, ci sarò io a dirigerti!». Tra me e me pensavo: se lui dice che ce la posso fare evidentemente sarà così.

Che persona e che regista era Dallamano?

Era molto simpatico. Ogni due mesi ci incontravamo in Piazza Navona per discutere la parte: siamo andati avanti così per otto mesi. Lui mi disse di dimagrire un po’ e io ho perso cinque o sei chili. Poi, un bel giorno, mi ha richiamato dicendomi di raggiungerlo negli uffici di una società di produzione. Prima di entrare nello studio del produttore lui mi disse cosa dovevo rispondere alle sue domande per ottenere la parte. Ho fatto come Massimo mi aveva detto e, alla fine, il produttore è uscito tutto contento, dicendo che la parte era mia, che aveva finalmente trovato Solange. Massimo mi aveva già scelta, ma dovevo negoziare col produttore per ottenere quello che era meglio per me.

Lo sai che Cosa avete fatto a Solange? è uno dei gialli preferiti da Quentin Tarantino?

Sì, ho sentito. Anch’io lo amo molto. E sai che una volta avevo perfino una copia personale in 35mm del film?

E come mai?

Perché qualcuno mi aveva regalato questi cinque rulli del film.

E poi? Che fine hanno fatto?

A un certo punto con mio marito abbiamo traslocato da New York a Los Angeles e durante il trasloco, siccome tutte insieme le bobine pesavano troppo, le abbiamo abbandonate. Peccato…

Cosa ricordi delle riprese del film?

Mi sono divertita molto. Il primo giorno sul set oltre a me c’era tutto il cast. Era il primo ruolo importante della mia vita per cui ero un po’ impacciata. Al momento di girare ho fatto qualche pasticcio e Massimo ha iniziato a sbuffare e a sgridarmi in italiano. Il mio dialogue coach era nascosto vicino a me dietro un albero, eravamo a Hyde Park. Mi disse di non preoccuparmi, che eravamo tutti nervosi e che dovevo solo fare un lungo respiro dopodiché tutto sarebbe andato bene. E così è stato.

Ti ricordi del direttore della fotografia, Aristide Massaccessi?

No, a dire il vero…

E cosa è accaduto quando il film uscì? Fu un successo?

Solo un’altra cosa su Massimo. Era bravissimo con gli attori, ci parlava tantissimo, era molto tecnico. Se una cosa non funzionava in un modo, la si faceva in un altro. Se, ad esempio, non si riusciva a ottenere una scena lavorando dall’interno del personaggio, lo si faceva dall’esterno. Ma dal momento in cui mi aveva urlato contro ero rimasta un po’ turbata e cercavo di evitarlo il più possibile. Un giorno stavo girando per Roma alla ricerca di un nuovo agente per fare dei casting. Mi imbattei in questo Gino Malerba. Gli dissi che quella sera sarei dovuta andare all’anteprima di un film. «Quale film?»; «Cosa avete fatto a Solange?» gli ho detto io. Lui mi ha chiesto se fossi stata nel cast e se avevo intenzione di andare alla proiezione. «No» faccio io. «Come no? Certo che ci devi andare e io vengo con te». Ci siamo andati e io ero nervosissima. C’era anche Massimo. Alla fine la serata è stata un successo. Massimo si era preoccupato perché non mi vedeva arrivare. Voleva testare con me la serata per vedere se andavo bene per un altro film che aveva in mente di fare.

E cosa è successo a questo punto alla tua carriera? Per esempio, vedo che compari in un film, Decameroticus, di Giuliano Biagetti (1972)…

Ma mica l’ho fatto quel film.

Ah no?

No. L’ho visto ma non c’ero mica. Un amico mi ha mandato quel film dicendomi che aveva letto il mio nome nel cast ma non era riuscito a vedermi. Così l’ho guardato anche io, ma nemmeno io mi sono trovata.

Mentre Decameron N°. 2 (1972) di Mino Guerrini?

In quello c’ero. Il regista di Decameron N°. 2, Mino Guerrini, era uno molto tranquillo, che non si preoccupava tanto di quello che stava facendo. «Tu mettiti lì, tu fai questo». Per lui era sufficiente arrivare a fine giornata, come le cose venivano fatte era un’altra cosa. Anche questo film comunque andò molto bene.

Cosa ti ricordi del film?

Avevo solo qualche preoccupazione rispetto a certi nudi, forse un po’ eccessivi e al mettermi certe cose lì sotto…

Ma perché hai fatto un film così dopo Solange? Come funzionava, ti proponevano dei copioni?

Volevo fare qualcosa di diverso, un film dove si ridesse.

Come vivevi le scene di nudo?

Mi sentivo abbastanza a mio agio. Anche perché quando sei focalizzato su quello che stai facendo, lo fai e non pensi ad altro.

E a quell’epoca i nudi erano all’ordine del giorno, non è vero?

Oh, sì, Barbara Bouchet per esempio ne ha fatti parecchi. Ma anche io non avevo paura e non mi tiravo indietro.

Raccontami un po’ di Il gatto di Brooklyn aspirante detective (1973). Com’era il regista, Oscar Brazzi?

Oscar Brazzi era fantastico, gentilissimo, pieno di vita. Anche suo fratello Rossano era molto gentile. Non ho lavorato per lui, ma ogni tanto veniva sul set e abbiamo anche cenato insieme più di una volta. E poi c’era Sergio Garrone, un produttore con cui ho lavorato due volte. Una volta per Il gatto di Brooklyn, la seconda sul set di Estratto dagli archivi segreti della polizia di una capitale europea (Riccardo Freda, 1972).

E il protagonista di Il gatto di Brooklyn, Franco Franchi?

Era un grande. Un giorno si è presentato con due bodyguard. Io non avevo capito che fossero i suoi bodyguard. Me l’ha detto lui. Era molto professionale.

Dove avete girato il film?

Non me lo ricordo. Comunque vicino a Roma, in un paesino semi-sperduto.

C’è qualche aneddoto particolare che ti ricordi circa le riprese?

No a dire il vero. Credo fosse filato tutto liscio, se no me ne ricorderei.

E di Estratto dagli archivi segreti invece cosa rammenti?

Il regista era Riccardo Freda ma io con lui non parlavo quasi mai. Mi ricordo di una scena con Luciana Paluzzi. Ero sdraiata con gli altri pronti per sacrificarmi su un altare e a un certo punto Freda inizia a urlare «Concentrati!, Concentrati!». Allora io, che ero sdraiata, guardo Luciana che era in piedi sopra di me e le chiedo se avessi fatto qualcosa di male, sorpresa perché l’unica cosa che dovevo fare era rimanere sdraiata e in silenzio. «No» mi dice lei «ce l’ha con qualcuno lì in fondo». Allora, siccome dovevamo concentrarci, lei ha iniziato a far girare i pollici… (ride). Divenni amica della moglie di Freda, quasi ogni giorni andavo a fare shopping con lei. Giravamo quasi sempre di notte in questa magione. Dormivamo di giorno e verso sera andavamo sul set. Mi ero presa una cotta per Tony Isbert e lui ricambiava, solo che alla fine non abbiamo combinato nulla. E poi c’era Maximo Valverde. Era un uomo molto posato, perché era sposato ma era molto affascinante. Due anni fa ero in Spagna, stavo fumando con qualcuno e siamo finiti a parlare di Maximo Valverde che tutti conoscevano. Mi ha fatto molto piacere. Ma l’esperienza del film è stata molto impegnativa.

Riccardo Freda aveva un’ottima reputazione a quel tempo però, oggi non se lo ricorda quasi nessuno. È strano, vero?

Mandami una sua foto perché anche io faccio fatica a ricordarlo…

Dopo Estratto dagli archivi… hai fatto un altro film molto strano, Il sesso della strega (1973). Ricordi qualcosa?

Certo che mi ricordo, soprattutto Sermoneta, che bella Sermoneta! Indossavo un cappotto nero lungo. Pensa che non ho ancora capito di cosa parlasse il film. Tu l’hai mai visto?

Sì, sì, e tu?

Sì anch’io, solo due o tre anni fa però. E c’è questa piccola scultura alla fine del film. Ma cosa vuol essere, un simbolo?

Ti ricordi del regista, Angelo Pannacciò? Doveva essere un tipo piuttosto strano a quanto si racconta…

Non è che ricordi molto e con lui ho parlato pochissimo. Ricordo un aneddoto: un giorno stavamo camminando lungo un piccolo sentiero eio indossavo il lungo mantello nero durante la ripresa di una scena, e una ragazza accanto a me a un certo punto mi chiede a bassa voce «Ma tu hai capito di cosa parla questo film?». «No – le rispondo – mi limito a fare quello che mi dicono di fare»…

Incredibile: e cosa hai pensato quando hai letto il copione?

Vorrei dirti che c’era ma mi sa che non l’ho neanche letto. Sicuramente c’era ma l’avrò buttato fuori dalla finestra. Ho imparato le mie battute e basta. Quando poi ho visto il film non ricordavo di avere fatto tutto ciò. L’unica cosa che ricordo è che durante le pause cavalcavo, andavo in un maneggio vicino al set e cavalcavo nel bosco.

Ma i film che facevi poi li andavi a vedere al cinema?

No, in realtà quelli che ho visto li ho visti tutti recentemente nell’arco degli ultimi due o tre anni, anche perché a un certo punto decisi di lasciare l’Italia e tornare in America.

E cosa ricordi di Madeleine, anatomia di incubo (Roberto Mauri, 1974)?

Adoro quel film.

Perché è stato l’ultimo film che hai girato in Italia? In fondo, da quando hai fatto Solange la tua vita è cambiata, ti chiamavano per ruoli importanti da protagonista. Perché allora hai smesso?

Fondamentalmente mi era venuta una grande nostalgia dell’America. Forse oggi se avessi un’altra occasione di tornare in Italia ci rimarrei. Invece sono andata ad Atlanta, Georgia, e ci sono rimasta per un anno, un anno e mezzo. E da Atlanta mi sono trasferita a New York dove sono rimasta per molto tempo. E poi c’era il problema del permesso di soggiorno che non avevo più. Alla fine sono andata a Los Angeles. A Roma mi ero divertita a fare i provini e a lavorare nel mondo dello spettacolo, ma anche a New York era una pacchia e a Los Angeles ogni giorno era diverso dal precedente.

Ma non è stato un po’ rischioso lasciare l’Italia dove comunque lavoravi nello show business per tornare in America e ricominciare da zero?

Come ti ho detto, avevo nostalgia di casa e in più volevo sposarmi e avere una vita normale. Però per un po’ ho continuato a recitare e il primo film che ho fatto dopo essere tornata dall’Italia è stato Non violentate Jennifer.

Cosa pensi di questo film, considerato di culto in tutto il mondo? Essendo una storia molto forte, immagino che quando avrai letto il copione sarai rimasta un po’ turbata, no?

Non avevo qualcuno che mi guidasse e mi dicesse cosa fare. Ero la guida di me stessa. E quando mi si è presentata l’occasione di fare questo film, ho accettato la parte senza pensarci. Non so se sia stata una scelta giusta oppure no. È stato solo quando mi hanno comunicato che ero stata presa e mi hanno dato da leggere il copione che, effettivamente, ho cominciato a chiedermi come avrebbero girato alcune scene. Così ho parlato con il regista e poi ho rivisto il contratto e la mia assicurazione. Avevo paura di ritrovarmi sul set di un film pornografico.

E cosa ti ricordi di quell’esperienza?

È stato, senza ombra di dubbio, il film più difficile che abbia mai fatto. Nessuno era a suo agio. Tempo dopo ho rincontrato il regista, è stato buffo. Comunque non c’è paragone con gli altri film che ho fatto in Italia. Quando giravo a Roma non mi sono mai veramente preparata per i ruoli che interpretavo, in Non violentate Jennifer sì, e c’erano anche moltissimi nudi. Però ho chiesto il permesso a miei genitori se potevo farlo. Non era certo un film per cui ti svegliavi la mattina non vedendo l’ora di andare a lavorare, ma una volta cominciato era un impegno e bisognava andare fino in fondo. Non avevo il tempo di vergognarmi perché sempre nuda. E appena il regista dava il “cut” e finiva la scena, la costumista correva subito con l’accappatoio a coprirmi.

Cosa pensi della violenza di questo film?

È duro, molto duro. Ho anche corso il rischio di farmi male veramente, non volevo ferirmi. In alcuni momenti era molto doloroso. La scena in cui uno degli aguzzini mi picchia, per esempio, è stata molto impegnativa psicologicamente anche per me. Ma quando poi arriva il momento di vendicarmi e di ucciderli, ricordo che questo attore che mi aveva picchiata al momento di essere ucciso si è sentito a disagio, e devo dire che non l’ho biasimato.

Come hanno ottenuto l’effetto del sangue che esce da sott’acqua nel momento in cui tu tagli il pene nella vasca da bagno e uno dei ragazzi?

Non lo so, a dire il vero, non sono esperta in effetti speciali. Potrei dirti che gliel’ho tagliato veramente a quel disgraziato! Poco tempo fa mi hanno fatto i complimenti per il film, in particolare per la scena del motoscafo in cui impugno l’ascia. Sai che quella scena l’ho fatta io senza l’aiuto di nessuno, e siamo riusciti a completarla in un solo giorno?

Avete avuto problemi con la censura al tempo?

Molti. Problemi con la classificazione, con alcuni tagli. Per i divieti che ha ricevuto non era neanche un film così facile da guardare. Eppure incontro tantissime persone che l’hanno visto. Anche ragazzini, anche se io non porterei mai un adolescente a vedere un film così.